Nucleare e transizione energetica. Quale rapporto

Scopo di questo spazio è contribuire all’armamentario culturale che andrà a comporre la tua visione delle cose.
Senza adottare opinioni a priori, ma netto nella posizione.

Il nucleare è utilizzato per produrre energia elettrica. Si contraddistingue per il vantaggio di non dover dipendere da fornitori esterni (se non per l’approvvigionamento della materia prima), inoltre il tempo utile di vita delle centrali nucleari può in certi casi essere prolungato. Inoltre è possibile produrre ulteriore energia nucleare riconvertendo (seppur in modo limitato) il combustibile fossile già utilizzato. 

Ciò indica che i costi di produzione di tale energia possono talvolta essere portati verso un ulteriore ribasso. In futuro lo stesso trattamento delle scorie potrebbe subire evoluzioni, come quello della trasmutazione, ovvero la trasformazioni di queste con appositi trattamenti, per abbattere la gran parte della loro radioattività. 

Tuttavia questa possibilità è al momento solo teorica. Dati AIEA relativi al Report PRIS del 2019 dicono che la capacità nucleare operativa globale è di 392 Giga Watt Ora, frutto di 443 reattori distribuiti con diversi sistemi di raffreddamento, in 30 paesi. Producendo nello stesso anno 2.586 Tera Watt Ora di elettricità. Ciò rappresentava il 10% della produzione totale di energia elettrica mondiale. Nel 2019 nel mondo, sono stati collegati alla rete elettrica 5 Giga Watt Ora, di cui il 77% in Asia.

Sempre nel 2019 sono invece stati scollegati dalla rete elettrica 10 Giga Watt Ora. Nello stesso anno era in costruzione una capacità di 57 Giga Watt Ora, ovvero 54 reattori. Ma mettendo un attimo da parte la questione dei costi di produzione di elettricità e la gestione delle scorie, la prima domanda che ci poniamo è:

l’energia nucleare è o no una energia di tipo verde?

Come prima cosa dobbiamo partire dall’attuale dibattito sulla tassonomia nella UE. La tassonomia è il complesso di metodologie classificazione che definisce principi, procedure e delle norme che regolano lo studio teorico di un campo appartenente alle scienze naturali.

In vigore dal 2020, e sottoposto ad aggiornamento da parte della Commissione, questo regolamento stabilisce le condizioni generali che una attività economica deve soddisfare per qualificarsi come sostenibile. Ciò allo scopo di dare ai mercati finanziari un indirizzo su quali fonti possono avere una “etichetta verde”. Di conseguenza determinando quali settori sono rispettosi del clima, si indirizzano investimenti privati e sussidi statali.

Dunque non si tratta di un giudizio di valore sulle fonti di energia, ma semplicemente lo stabilire quali di esse possono essere strumentali all’obiettivo finale. E cioè la transizione energetica. Germania, Lussemburgo, Portogallo, Spagna, Danimarca e Austria sono contrarie ad inserire il nucleare ed gas, altri paesi dell’Europa centro orientale (il cui fabbisogno è attualmente ampiamente alimentato a carbon-fossile, gas e nucleare), guidati dalla Francia, sono di parere opposto. 

Macron, motivando questa classificazione sostiene infatti che:

“Se vogliamo pagare la nostra energia a prezzi ragionevoli e non dipendere da paesi stranieri, dobbiamo continuare a risparmiare energia e investire nella produzione di energia senza emissioni di carbonio sul nostro suolo”.

Gli argomenti contrari all’inserimento nella tassonomia UE riguardano il fatto che non è possibile sostenere che l’energia nucleare sia una energia ad emissioni 0 e soprattuto se lo scopo finale è la transizione energetica, allora si dovrebbe operare per favorire investimenti sulle energie rinnovabili. La Commissione europea sembra tuttavia orientata per classificare gas e nucleare, a determinate condizioni (per esempio che venga usato solo per rimpiazzare fonti più inquinanti) come energie verdi. 

Si tratta di due modi, quelli impersonati semplificando, da francia e germania, di intendere l’obiettivo della transizione energetica, che ricordiamolo è verso le rinnovabili e non verso il gas o il nucleare. La eventuale scelta di sussidiare la produzione di energia tramite il nucleare va intesa come operazione di Realpolitik data dalla necessità di trovare una mediazione politica.

Questo poiché anche il nucleare, come tutte le fonti in diversa misura, provoca emissioni se consideriamo tutto il suo ciclo di vita. Infatti, le emissioni riguardano la fase di estrazione della materia prima, durante la lavorazione ed il trasporto dell’uranio. 

Avvengono anche nella lunga e complessa fase di costruzione e smontaggio delle centrali (azioni queste che possono durare ognuna anche decenni), oltre che il trasporto e lo stoccaggio ed delle scorie radioattive. In sostanza, come affermato dalla Agenzia federale tedesca del ciclo di vita Wise: l’energia nucleare rilascia 3,5 volte più CO2 per kilowattora rispetto ai sistemi fotovoltaici. Tredici volte di più rispetto all’energia eolica terrestre, e 29 volte in più rispetto all’energia idroelettrica. Osservando dunque tutto il ciclo di vita di una centrale nucleare, il beneficio del basso costo di produzione tramite questa (e che ovviamente non è il costo di commercializzazione, visto che quello dipende anche da altre variabili) va ridimensionato.

Ma quindi, l’energia nucleare in quale rapporto si pone con gli obiettivi della transizione?

Seppure l’energia nucleare non manchi di aspetti positivi, specie se comparata con le tipologie a carbon fossile, in confronto ad energie come l’eolico ed il solare risulta più costosa e richiede investimenti, costi nascosti, rigidità di mercato, e tempi di costruzione molto importanti. 

Mantenendo il focus puramente sulla prospettiva di sostenibilità economica dunque, eolico e solare si prestano ad una dinamica dei prezzi maggiormente permeabile alla logica della competizione tra produttori. Sono in costante evoluzione tecnologica e non presentano effetti latenti paragonabili alle altre fonti sopra citate. Certo allungare la vita di alcune centrali porterebbe una diminuzione dei costi di produzione dell’energia. Ma non tutte le centrali si prestano ad un allungamento alla durata di 60 anni. 

La presunta convenienza o meno del nucleare ovviamente non riguarda le centrali da costruire ex novo poiché il pianeta ha necessità di fronteggiare adesso, e non tra 10 anni, il problema delle emissioni di CO2. Inoltre dal punto di vista economico è giusto chiedersi in termini di costo opportunità, se ingentissimi investimenti dedicati al mantenimento delle centrali esistenti non possano produrre di più se indirizzati per accelerare lo sviluppo di fonti con un mercato più aperto e concorrenziale, e con migliori margini di efficientemento e convenienza economica: come sono il solare e l’eolico.  

La tecnologia di produzione tramite nucleare ha dunque indubbi vantaggi quando la comparazione viene fatta con i combustibili della precedente epoca industriale; ma non è in grado di sostenersi economicamente, ne di garantire un mercato caratterizzato da una sana competizione tra produttori. Il suo mantenimento (escludendo gli ambiti della ricerca scientifica) può essere giustificato fondamentalmente come effetto collaterale della produzione di armamento militare.

Ma in termini di transizione energetica, è possibile che nucleari e rinnovabili collaborino per il comune obiettivo? Questo è probabilmente l’intento alla base della scelta della Commissione. A darci il la sua circa questa domanda centrale è Ferdinand Dudenhöffer, esperto di automotive e che dice:

se davvero scegliessimo di effettuare questa sostituzione, non si potrebbe far a meno della energia nucleare”.

E infatti continua: “per garantire la mobilità di un parco macchine elettrico entro il 2050, necessiteremmo di 39.000 turbine eoliche in più rispetto ad oggi”. Questo non è fattibile. A meno che non si chieda aiuto al nucleare. Questa riflessione tuttavia non tiene in dovuta considerazione l’efficentamento continuo di cui la produzione eolica onshore ed offshore sono protagoniste. Si presume infatti che l’eolico abbia ancora forti margini di miglioramento. Va ottimizzandosi costantemente il costo dei materiali, pale sempre più sottili consentono una migliore aerodinamica e quindi fornire livelli di efficienza più elevati. 

Nuovi metodi di controllo possono ridurre lo stress meccanico sui componenti del sistema e nuove tecnologie di rilevamento delle problematiche vanno a ridurre i costi di manutenzione e i tempi di stop. Si sta inoltre lavorando intensamente per ridurre ulteriormente le emissioni sonore. Di conseguenza se il calcolo di produzione Megawattora viene fatto considerando i più recenti rendimenti delle turbine eoliche (ovvero una potenza media di 4 Megawattora e non 1.9 come ipotizzato da Ferdinand Dudenhöffer), il numero di turbine di cui ci sarà bisogno entro il 2050 va quantomeno dimezzato. 

Questo, senza considerare ulteriori sviluppi della tecnologia, che in questo senso si susseguono anno dopo anno. Certo questo può valere anche per il nucleare, tuttavia i costi di quest’ultimo non diminuiranno in modo rilevante. Dunque elettrificare il parco auto di cui avremo bisogno nel 2050 è impresa realistica, se si lavora seriamente e senza ambiguità in questa direzione.

Stessa traiettoria per il fotovoltaico, il quale rappresenta una fonte particolarmente conveniente, per versatilità e manutenzione. Inoltre ci sono ancora molti margini di miglioramento e redditività ed i sistemi tramite cui questo è progettato consentono di accumulare energia durante le ore di esposizione e restituirla in mancanza di sole. Ad oggi il programma di dismissione del nucleare tedesco indica che delle 6 restanti centrali, 3 sono state scollegate dalla rete a fine 2021 e le utile 3 lo saranno entro fine 2022. E questa è la scelta politica fatta. Condivisa da tutti i partiti, tranne Alternative Für Deutschland. Le 4 aziende che avevano interessi nella gestione dei reattori, sono state rimborsate dal pubblico con 2,4 miliardi di euro.

Dunque l’11,3% della energia precedentemente generata in Germania con l’atomo, andrà rimpiazzata. Il governo federale ha stabilito che la sicurezza dell’approvvigionamento in questo delicato periodo di transizione, dovrà essere garantita da una combinazione tra impiego delle risorse stoccate e flessibilità nel ricorso alla importazione tramite il sistema integrato europeo, e ovviamente tramite l’accelerazione delle rinnovabili.

Tenendo sempre a mente l’obiettivo finale, a mio avviso ha anche senso che la produzione elettrica venga transitoriamente mantenuta li dove già esiste. Tuttavia va tenuto presente che ciò non ridurrà i costi in bolletta (non entro i prossimi 20 o 30 anni almeno) e bisogna essere consapevoli piuttosto del contrario, e cioè che questa vada piuttosto sostenuta con incentivi statali. Infatti quando vengono a mancare questi, la sua sostenibilità economica diventa un problema. Ciò significa che quando non saranno più redditizie, è pressoché matematico che la responsabilità finanziaria di questa fonte andrà a scaricarsi sulle spalle del contribuente.

A riprova di ciò colpisce il fallimento di due grandi società costruttrici di reattori, la Westinghouse negli Stati Uniti, finita in bancarotta per 6,2 miliardi di dollari nel 2017, la divisione reattori si Areva NP in Francia, venduta ad EDf per nel 2018 prendendo il nome di Framatome, la stessa General Electric pioniere del settore, ha espresso ormai da anni, dubbi sulla fattibilità economica della costruzione di nuove centrali. Russia e Cina non hanno invece problemi di doverne giustificare la redditività economica poiché paesi in cui, per dirla eufemisticamente, lo stato è i principale attore del mercato energetico, hanno altre necessità legate alla produzione atomica per ragioni militari. 

Inoltre, la durata di vita delle centrali nucleare può essere in certi rari casi allungata, ma sempre per un limitatissimo numero di decenni. E ciò espone anche al rischio di incidenti connessi a tale allungamento. Oggi in Europa occidentale molte centrali vengono smantellate perché arrivate alla soglia dei 40 anni, e diversi impianti presenti nell’Europa orientale sono reattori sovietici di tipo PWR 230. Riferendosi a questa tipologia di impianti, nel 2015 Thomas Halverson (professore alla università di Washington) ne riferiva come strutture ampiamente deficitarie in concezione, costruzione ed operatività. Con sistemi di emergenza, antincendio, controllo e di contenimento non affidabili e obsoleti. In sostanza Halverson indicava queste centrali, concepite per un ciclo di vita di 30 anni, e presenti in Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Bulgaria come la maggiore minaccia nucleare attuale per l’Europa. 

Negli USA, il più grande produttore di energia nucleare al mondo, non si è mai riusciti ad attrarre sufficienti investimenti privati tali da creare un ambiente competitivo. Ciò significa che per garantire a molti reattori un adeguato rendimento, vengono applicati applicati sovrapprezzi al prezzo dell’energia prodotta.  In sostanza, ritrovarsi con centrali nucleari che producono in perdita è una eventualità piuttosto comune.

L’Italia in questo senso, per ricercare alcuni dei vantaggi del nucleare, dovrebbe far fronte a ingenti impegni economici per la costruzione che per le successive fasi di gestione e smaltimento. Il nostro paese ha davvero bisogno di accumulare nuovo debito a fronte di un tipo di produzione così rischiosa quando all’orizzonte si staglia un nuovo paradigma produttivo e culturale? Utilizzando le analisi sviluppate dall’istituto “DIW Berlin” (il più grande istituto di ricerca economica della Germania); 

per i privati, è molto difficile trovare una ragione commerciale per entrare in questo mercato in modo redditizio. Una simulazione con metodo Monte Carlo conclude che in ogni scenario, un investimento in questo campo sarebbe fallimentare. Economicamente vale lo stesso discorso per i reattori modulari piccoli, conosciuti con l’acronimo SMR e detti di quarta generazioni, la cui concezione risale tuttavia agli anni ’50.

In pratica parlando prettamente dal punto di vista dell’investimento economico, costruire una centrale nucleare da 1000 Mega Watt di potenza elettrica porta ad una perdita media di circa 5 miliardi di euro l’anno. Se l’obiettivo è disporre per un periodo limitato di impianti già esistenti, il ricorso al nucleare non è un idea infondata di per sé, a patto che sostituisca le fonti più inquinanti.

Fonti: Costi centrali nucleari: https://bit.ly/3qZ4Yzx | Emissioni CO2 da energia nucleare: https://bit.ly/3Gf1PlO | Nucleare ed emissioni: https://bit.ly/3q4FYrh | Nucleare ed emissioni: https://bit.ly/3HIoQ0E | Centrali nucleari recenti: https://bit.ly/3t4SdpS | Reattori in Europa orientale: https://bit.ly/3G2mQzT | Rimborso ai fornitori: https://bit.ly/3n9ycL7 | Bancarotta Westinghouse: https://nyti.ms/3q4UNKw | Durata centrali nucleari: https://bit.ly/3F8ron9 | Tassonomia UE: https://bit.ly/31FFQW0 | Sostenibilità economica: https://bit.ly/3zA0ROp | Report IAEA PRIS 2019: https://bit.ly/3q63jcl | Thomas Halverson “Ticking Time Bombs: East Bloc Reactors”: https://bit.ly/3zAEE2w | Rischio vuoto approvigionamento Germania: https://bit.ly/3HIqmQo | Utilizzo fonti in tempo reale: https://app.electricitymap.org/map

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